Avanti e indietro.
Avanti e indietro.
L'oscillante fanciullezza d'un altalena?
L'avvolgente ritmo d'un amplesso ripetitivo?
La monotonia di una pendola?
No. Il solito salto, dalla pellicola che mi imballa senza naftalina alla bietta piccolezza. Vertigini.
L'era degli schiaffi che il mio stesso respiro mi riserba sbattendo contro un involucro asfissiante è momentaneamente conclusa: passo dallo sfiorare il suddetto involucro con le ciglia umide al non riuscire nemmeno a toccarlo con un dito.
(DISORDINATE) NOTE (DOLENTI):Appeso ad una delle mie costole preoccupantemente scricchiolanti, ciondolo come un'impiccato dal fresco decesso. Ancora non puzzo, ancora è vivido il brillio delle iridi ferme ed oscillo. Oscillo seguendo il ritmo d'un vento infausto, non esistente, illusorio di contrasto all'effettivo buio che m'inghiotte, ma la luce d'una brace risveglia i miei torpori. Brace che, da lontano, sembra enorme, intimidatoria, sontuosa culla ardente per strazianti sacrifici profani. Che sia destinato a morire ancora? Un trapasso a doppio, triplo nodo? La gola già pulsa e fa male, ma più quella brace si fa vicina, più piccola diventa. Rimane pur sempre una minaccia, ma non più grande d'una pupilla al sole. Dal bagliore rossastro che irradia in questa minima porzione d'oscurità, compaiono lunghe ciocche di capelli fulvi: lingue di fuoco, tentacoli ustori che, meno ispirano fiducia, meno ai voglia d'evitarli.
Avviluppano la persona stessa che si rivela detentrice d'un mozzicone che non getta sull'instabile pavimento viscoso. Il cancro si rigenera e torna fonte d'ansia e sollievo per gli spasmodici bisogni di questa donna rossa ed angosciata. Pietrificata. Fuma, l'estremità della sua cartina lampeggia, ma granitica e vigilante sosta. Un suo marmorizzato sguardo perentorio e mi vedo costretto a scendere dal mio trespolo osseo. Ma non è marmo a comporre le stonate cornamuse di cui veste: la pelle delle sue dita, visibilmente sollevata, la tramuta da gelido prodotto divino a carne infetta. Mi avvicino, barcollo sui miei sbalzi vitali, le stringo l'indice e succhio, ma non faccio in tempo a metabolizzare che, il sapore di ferro muta in uno nettamente più gradevole. Fruttato, a tratti dolce, a tratti acre.
Racchiuso nel mio stomaco, sacca capricciosa ed agitata, mi sostengo a fatica contro una delle sue pareti elastiche: l'unica consolazione? Quel morbido gusto che non mi abbandona la lingua già solleticata da semi scalfiti.
La vista offuscata dai continui singulti dalle lagne che la fame pianta non convinta di voler abitare questo posto, si stabilizza con lo stabilizzarsi di simili ondate nauseabonde. Corro il rischio, mi faccio avanti senza che una meta mi sia effettivamente amica ed immergo i piedi nudi sino alle caviglie, rischiando la corrosione da succhi gastrici. Che io sia completamente nudo? Forse no, ma mi ci sento. Di sicuro sono meno vestito della ragazza al mio fianco. Percepita la sua presenza, mi volto di scatto e mi soffermo sulle punte cioccolato della sua chioma corta ed arruffata ad arte: sopracciglia marcate, disegnate come quelle d'una vitrea diva europea. Sì. Un'antica diva in vetro, attraverso la quale passano mille luci dello stesso colore, ma dalle mille sfumature. Ambrata e passionale, l'abito divorato in più punti dalla bile, le gocciola addosso come marmellata di fragole.
Probabilmente mi aspetto che dica qualcosa in quanto affascinato così come lo ero pochi attimi prima d'incontrarla e me lo aspetto perché convinto -ma non troppo- che questa sia casa mia. Che questi siano i miei organi. Ciò non significa che non sia la benvenuta, difatti, dopo colei la quale ha acceso il nero di questo colloso posto scuro, lei riattiva i suoni: né grida, né chiacchiere inutili.
Canta e rovescia
erre su una stuoia di velluto. Canta timorosa, romantica, così contrapposta all'orribile e funesto palco rifilatole per l'occasione. E' per me che mastica note? A me le sputa in volto con grazia? Non lo so. Piombo seduto fra avidi liquidi ed assicurate abrasioni, quando anche lei sparisce e, sotto di me, un tamburo non rulla, ma lento e cadenzato avverte.
Il prologo d'un esecuzione già da tempo iniziata? Non so star fermo sul posto, ma la colpa non è mia. La colpa è del nuovo angolo nel quale sono stato stipato.
Non è divertente giungere a credere d'aver trovato qualcuno con cui stare, se questo qualcuno, nel momento più sensibile della situazione, sparisce e forse si fa dare il cambio.
Siamo in una caserma? No, siamo su un cuore pulsante che una formosa donna abbigliata da bambina, scala all'apparente fine di raggiungere me.
Scatta la tachicardia, dunque m'aggrappo dove posso e mi imbratto di sangue. In piedi al mio umile cospetto, questa falsa infante dal bikini a pois inverte i ruoli. Sì, perché qui, dal basso verso l'alto sono io che mi prostro al suo regno d'angosciosa preadolescenza.
E' matura e non lo si nota solo dall'aspetto fisico. Lo si nota dalla gamma d'espressioni che, variegata, pare averle solcato e risolcato i tratti fatali di provocatrice.
E' figlia di sé stessa, nonché madre di sé stessa e magari desidera giocare alla famiglia. Magari desidera coinvolgermi e così fa: preleva vernice cremisi -che vernice non è- da sotto i suoi tacchi a spillo. Si scrive addosso qualcosa, ho bisogno di qualche istante per capire che è: "parlami".
Non per dispetto, mi concedo del silenzio e quando sono sull'orlo di fiatare, mi rendo conto che sarà la mia rovina. Perché? Perché anche lei evaporerà. Lei, i suoi boccoli fondenti, le sue labbra tali e quali all'infarto che coviamo e le sue mani ferite. Sacrilega santità che decido di suggellare con la voce e che, come previsto, mi scaraventa altrove. Nuovamente isolato e nuovamente asfissiato. Che sia tornato nella mia scatola? No, è diverso. Qui qualcosa fluisce come la risacca del mare, ma non è rilassante né pregevole: rubizzo mare degli inferi lembisce il mio scheletro intrappolato. Scheletro nello scheletro, una roba così. Una roba alla Lynch.
Senza scampo in questo tubo di gomma, mi dimeno senza fiato. Non respiro, ho una crisi di panico e sento le guance dolere. Prima dolgono, poi vengono lenite dal formicolio tipico della carezza. Ma chi cazzo può carezzarmi in una simile condizione? Comunque, le sevizie invisibili non hanno fine e, d'un tratto, percepisco le cosce bruciare come mai prima. Incastrato in un condotto nel quale non entrerebbero altri che me, soffro bestialmente e grido d'un grido muto che, alla fine del suo irruento percorso, si accaparra potere e si fa sentire sul serio. Riecco le mie urla che, dopo infinito tempo d'attesa, tornano a stupirmi per un motivo e nessuno può sentirle. Nessuno? Io ritengo impossibile condividere tale loculo con qualcuno, fino a quando l'eccezione non viene a confermare la regola e, addossato alla mia spossatezza, stavolta trovo un uomo, anzi, un infermiera dal rossetto totalmente sbavato. Aloni vermigli a tumefargli di cosmetico il mento come fosse un cannibale. E invece è qui per curarmi secondo metodi bruschi, anticonvenzionali ed illegali. Ma perché qualcuno dovrebbe curarmi? Sono forse malato? No, credo d'essere eccitato ora che questo rettile abbigliato di atipico bianco disinfettato mi si struscia addosso smanioso con lo scopo di guarire e distruggere tra sensazioni decisamente scostate dall'apatia che mi contraddistingue da un po'. Sono
opé? Ho un taglio non troppo profondo, ma infido che copioso vomita dalla mascella. La nuova crocerossina decadente, riversa su di me questa decadenza e lecca inarrestabile il danno inferto. Sembra volermi proteggere da un'ombra che a distanza monitora. Qui, in questa vena, non può entrare, non c'è spazio nemmeno per sospirare. Forse è il suo capo miscredente che, forse, è australiano e bisbetico.
Ma io, qui, con una sorta d'erezione più mentale che fisica, non capisco e fisso ad occhi
aperti, sgranati, la dedizione che questo mostruoso lui mi infligge come colpi di lama. Come i precedenti spettri che ho scontrato e attraversato. Perché? Cosa siete? Cosa sono?
Di nuovo immobilizzato nella mia gabbia su misura, di nuovo faraone d'un impero ormai ridotto a triste sabbia invadente, sono confuso da sussurri alterati che, fra sesso e tonalità, mi si mescolano nel cervello formicolante neanche componessero un discorso sensato. Parigi mi si sgretola nelle orecchie ed un tappeto di parolacce, d'amore confessato, frustrazione e lacrime melodiche mi rincoglionisce più di quanto già non lo sia.
Che abbia preso un colpo in testa? Che sia finito vittima di un qualcosa che proprio non ricordo? Che sia stato io il carnefice?
Mi piaceva essere guardato. Mi piaceva sapere che li seducevo. Ma poi tutto questo mi annoiava è iniziato a mancare.
Da quando dormo, mi manca un sacco.
Edited by bleach# - 6/8/2013, 16:58